Il massimo trofeo velico

La Coppa America non si può disputare in Svizzera in acque chiuse e quindi Ernesto Bertarelli deve scegliere una località sul mare. La scelta cade su Valencia, una città in grande espansione e trasformazione dove si sta completando un quartiere culturale disegnato dall’architetto Calatrava. Il team di Alinghi prepara una edizione storica, per numero di partecipanti, gli sfidanti sono undici, e spettacolo. E’ la prima volta in Mediterraneo e sarà anche l’ultima edizione con le barche della classe ACC (che ha cambiato nome dopo IACC) rese più potenti con l’aumento del dislocamento a 25 tonnellate. Tre sfidanti sono italiani: Luna Rossa con Francesco de Angelis skipper e James Spithill timoniere, Mascalzone Latino con Vasco Vascotto e Flavio Favini e +39 con un equipaggio molto inglese con Iain Percy e Ian Walker.  Poi ci sono il ricostruito Team New Zealand con Grant Dalton e Dean Barker, BMW Oracle con Chris Dickson,  Shosholoza dal Sud Africa con Mark Sadler, la francese Areva con Thierry Pepponnet, la svedese Victory Challenge con Magnus Holmberg, Desafìo Espanol con al timone Karol Jablonsky e nel team Paul Cayard, United Internet Team Germany con  Jesper Bank, China Team con Luc Gellusseau e Pierre Mas.
Il vecchio porto viene popolato da tutte le basi dei team, vicine tra loro: il pubblico può camminare tra le basi che pur conservando la loro privacy lasciavano intendere il lavoro che vive all’interno.
Luna Rossa è protagonista fino alla finale Louis Vuitton Cup contro Team New Zealand, dove accede dopo aver letteralmente umiliato BMW Oracle dove Chris Dickson ha un cedimento totale simile a quello subito a Perth, altra edizione storica, contro Dennis Conner su Stars & Stripes. Mascalzone Latino è una barca molto veloce, disegnata partendo da numerosi suggerimenti di Russell Coutts sbarcato da Alinghi, ma non riesce a esprimere tutto il suo potenziale e manca la qualifica alle semifinali. +39 vive di una cronica mancanza di fondi, rallentata da una rottura all’albero in una regata di flotta che precede le selezioni.
Luna Rossa viene fermata da Team New Zealand nella finale sfidanti: i kiwi sono determinati a prendersi la rivincita dopo la sconfitta del 2003 e hanno lavorato bene. Prima di affrontare la barca italiana scelgono un assetto da bonaccia, con un bulbo particolarmente lungo (6 metri) e quindi di diametro molto piccolo, inoltre I nostri sono più stanchi, la battaglia contro BMW Oracle è stata intensa mentre i kiwi avevano scelto come avversario il più morbido Desafio.
Il match della 32esima Coppa America inizia con valori in campo molto equilibrati: Alinghi però vince per 5 vittorie contro 2, tutte conquistate combattendo duramente. La rivincita per i kiwi è rimandata.
I dramma è il dopo Coppa: Alinghi nella sua ansia di controllare l’evento senza interferenze sceglie come Challenger of Record un club con sede in Spagna nato per l’occasione la cui sfida viene resa nulla dall’intervento della Corte Suprema di New York che apre la porta alla sfida “Deed of Gift” di Larry Ellison.

 

Non tutto il popolo dei velisti conosce Matteo de Nora, un italiano di nascita con molti passaporti, la passione della vela e soprattutto della Nuova Zelanda  e della Coppa America.  Matteo ha iniziato a sostenere Team New Zealand dopo l’America’s Cup del 2000, fondando il “Mates Group of Supporters” e da allora non ha mai smesso di voler bene a Grant Dalton e ai suoi ragazzi. Sono state gioie e dolori, come la separazione da Dean Barker, per cui era un grande amico, dopo la sconfitta di San Francisco. Ma può essere considerato un vero salvataggio.  Negli anni il suo coinvolgimento, anche economico, è cresciuto e ha sostenuto il team nella partecipazione alla Volvo Ocean Race del 2011-12 e nelle edizioni della America’s Cup 34 e 35.
Con il suo supporto e collaborazione il team ha riconquistato la Coppa nel 2017 con le regate delle Bermuda e la ha difesa con successo nella edizione del 2021 a Auckland.
Nel 2011 il Governo neozelandese gli ha assegnato per il suo supporto alle campagne per l’America’s Cup della Nuova Zelanda e la ricerca medica neurologica il grado di Companion dell’Ordine del Merito della Nuova Zelanda.

Lo yacht design è il cuore del mercato della nautica e lei ha lavorato molto con i designer per le sue barche e per l’America’s Cup. Qual è la situazione attuale?
Il numero di barche a motore rispetto a quelle a vela è in aumento, ed è un peccato. Le imbarcazioni diventano sempre più grandi e il legame con il mare si attenua. Le grandi barche stanno sostituendo le case per chi vuole vivere vicino al mare, anche se a bordo il mare si sente sempre meno. L’industria dovrebbe concentrarsi sulla riduzione dell’impronta di carbonio e costruire imbarcazioni che non si affidino così tanto all’elettronica e alla tecnologia. Quando sono in mezzo all’oceano, mi sento più sicuro su una barca a vela.

Pensa che vedremo imbarcazioni da diporto foiling?
Sì. A lungo termine, il foiling arriverà sulle imbarcazioni da diporto. Qualsiasi cosa riduca il consumo di energia lo farà. Per quanto riguarda la velocità e le dimensioni, invece, ci scontreremo con un muro. Il limite sarà la realtà. Ho visto le foto di una nuova barca di 30 metri, che non è propriamente foiling ma può comunque sollevarsi dall’acqua per ridurre la resistenza. È un primo passo e questo fa la differenza.

Parliamo di transizione energetica e di idrogeno.
Se la domanda è: “L’idrogeno sostituirà l’energia elettrica nel lungo periodo?”. La mia risposta è sì, ma al momento non è economicamente praticabile. La differenza di prezzo non sarà colmata rapidamente perché il costo dell’energia generato con idrogeno è molte volte superiore alla tradizionale e per distribuirla e produrla occorre un’infrastruttura. Per prima cosa la tecnologia deve dimostrarsi valida, cosa che forse accadrà presto, e poi deve diventare commercialmente redditizia.

Sono d’accordo
I problemi sono immensi ma l’innovazione va sempre più veloce. L’intelligenza artificiale farà un’enorme differenza, non necessariamente nella qualità dell’innovazione ma nella sua velocità. La usiamo nel Team New Zealand, anche altri team la utilizzano. Tutti stanno cercando di implementarla.

Lei è un velista appassionato. Qual è la scintilla della sua passione?
La vela era l’unico modo per vedere e raggiungere certi luoghi con un’altra prospettiva. Se si viaggia con i megayacht, non sempre è possibile visitare i luoghi a cui mi riferisco. Per esempio, non si poteva navigare il Rio delle Amazzoni. Trent’anni fa si potevano visitare luoghi come le Galapagos, in America Centrale, o le isole Tuamotu nel Pacifico solo con una barca a vela. La mia passione non è stare in mezzo all’oceano con onde enormi e venti gelidi, ma la vela è il modo migliore per circumnavigare il globo.

Parliamo della Coppa America. Cosa ci dice della scelta di Barcellona per la 37ª edizione?
L’America’s Cup a Barcellona è un grande risultato. Grant Dalton dedica molto tempo all’evento. Sarà un evento importante per Barcellona, il primo dopo le Olimpiadi del 1992. La Generalitat, il Consiglio esecutivo della Catalogna e il Comune hanno accettato con entusiasmo questo progetto così grande. Soprattutto, hanno capito che questi eventi accelerano la crescita della città e lo sviluppo delle infrastrutture. Stanno facendo una quantità incredibile di lavoro. L’avrebbero fatto comunque, ma grazie all’America’s Cup, l’hanno fatto prima e a un costo inferiore a causa dell’attuale inflazione.

In che modo la Coppa aiuterà la città?
In media, un turista si ferma da uno a due giorni, se arriva o parte con una nave da crociera si ferma per 4 ore. Un tifoso dell’America’s Cup invece resterà in città da sette a dieci giorni. In un hotel ora ti chiedono: “siete qui per l’America’s Cup?”. Questo cambio è piuttosto impressionante, ed è uno dei motivi per cui l’evento si svolgerà alla fine di agosto. Perché non c’è bisogno di riempire gli hotel in agosto, luglio o giugno, ma di prolungare la stagione. Avevamo ricevuto offerte da altre città; vorrei citare Malaga, Jeddah e Cork. Barcellona però è al centro dell’Europa e può ospitare eventi con i J Class, i Maxi, i 12 metri S.I. e altro ancora.

Louis Vuitton torna alla Coppa, forse è utile anche per riportare un’atmosfera per certi versi mai dimenticata. Cosa ne pensa?
Sì, sicuramente. Louis Vuitton resta sinonimo di America’s Cup e riporterà molto più di un’atmosfera. È un partner che, come ha dimostrato in 40 anni di storia, oltre al prestigio, sa come garantire la crescita dell’evento attraverso una collaborazione positiva e costruttiva.

Cosa vi aspettate dall’AC40?
Tra quelli formati dalle donne e dai giovani, ci saranno 24 squadre provenienti da 12 Paesi, comprese le sei che partecipano alla Coppa. L’equipaggio deve essere composto atleti che hanno la nazionalità di bandiera. Credo che alcune di queste squadre non sarebbero venute se non avessimo spostato la sede in Spagna. Barcellona si è rivelata ancora una volta un’ottima scelta. Più grandi sono i numeri, più pesanti sono le responsabilità, poiché le infrastrutture, il numero di persone, la durata dell’evento e gli obblighi logistici aumentano in proporzione.

E gli sfidanti? Gli piace il Barcellona?
Penso che i team siano soddisfatti di Barcellona. Mi sarebbe piaciuta anche Malaga, perché è una città più piccola, e Cork perché è una bellissimo campo di regata e si parla inglese e sarebbe stato più facile per le squadre comunicare.

È ancora vero che vincerà la barca più veloce?
In un certo senso questo è sempre stato vero. Con il foiling siamo passati però a un altro livello, che continuo a scoprire ogni giorno. Una volta raggiunta una certa velocità, intorno ai 50 nodi, il comportamento del foil lancia sfide diverse: la cavitazione infatti apre le porte a problemi completamente diversi. Quindi l’obiettivo non è quello di raggiungere la velocità più alta in assoluto, ma di mantenere la velocità media più elevata per tutta la regata.

Il gioco dell’America’s Cup sta cambiando nelle acque di Barcellona?
Facciamo un paragone con le corse automobilistiche: se si guida su un circuito molto accidentato, si devono avere un diverso assetto delle sospensioni, un set di pneumatici particolare, ecc. A Barcellona, le imbarcazioni navigheranno nel in prevalenza mosso. Di conseguenza dobbiamo adattare la forma e le dimensioni dello scafo e del foil a queste condizioni.  Progettisti e ingegneri ci dicono che è necessario un approccio diverso rispetto ad Auckland, dove si navigava principalmente in acque piatte.

Parliamo sempre di tecnologia e a volte dimentichiamo degli uomini che conducono le barche.
Il ruolo dei velisti non è meno importante di prima. E, a queste velocità, ogni piccolo errore è molto più costoso rispetto a dieci anni fa. È interessante: la tecnologia aumenta, ma anche le capacità dei velisti devono migliorare. Adesso cinque secondi per prendere una decisione possono essere troppi. Non si può guardare solo 20 metri davanti a sé, ma 200 metri più avanti. La vela in Coppa America è cambiata molto dopo l’edizione a Bermuda. Questi sono ormai aeroplani sull’acqua.

Uno dei punti di forza di ETNZ è la presenza di un cantiere navale.
Un aspetto positivo di Team New Zealand è che siamo l’unico team ad avere il proprio cantiere navale. Durante il Covid, avevamo portato delle roulotte in cantiere per far dormire lo shore team.  Siamo stati in grado di esprimere molte ore di lavoro anche ogni volta che siamo rimasti chiusi in lockdown, cosa che sarebbe stata difficile per un cantiere commerciale. Avere un cantiere proprio significa essere più veloci: si possono fare errori ma anche correggerli. Non bisogna aspettare che un fornitore metta a posto le cose e così si possono stabilire delle priorità.

Cosa racconta di Grant Dalton?
Il team che vince l’America’s Cup deve gestire l’evento, decidere le regole, ecc. Credo che Grant faccia probabilmente il lavoro di 20 persone anche perché tutti vogliono avere a che fare direttamente con lui. Per quanto riguarda il team, il suo punto di forza è saper identificare i punti deboli, concentrarsi su di essi e migliorare. È interessante notare che alcuni dei migliori team manager di Coppa America di tutti i tempi (Blake, Coutts, Dalton) sono neozelandesi. Si conoscono tutti fin dalla scuola, dove la maggior parte dei ragazzi impara a navigare. Anche perché nessuna località della Nuova Zelanda dista più di 100 km dalla costa.

Con il ritorno della Coppa in Europa, come ci si può evolvere senza applicare formule del passato?
Si può continuare ad andare avanti senza trasformare l’evento in uno spettacolo come sta facendo la Formula Uno. Ci sono diversi modi per farlo. Ad Auckland abbiamo introdotto un livello di copertura completamente nuovo, grazie alla qualità delle trasmissioni televisive. Volevamo che i commentatori spiegassero al pubblico cosa stava accadendo e perché. Le TV libere da diritti hanno reso felici i tifosi e gli sponsor. Abbiamo introdotto regola di nazionalità piuttosto rigida e ricordato che la vela non è uno sport d’élite. La Nuova Zelanda e l’Italia sono i Paesi che seguono di più l’America’s Cup, ma stiamo lavorando per ampliare il pubblico.

Ha una squadra preferita?
Team New Zealand è forte, ma ricordo anche che nella storia dell’evento nessuna squadra ha mai vinto tre volte di fila. Oggi, NYYC American Magic sembra molto in forma e molto concentrato. Tom Slingsby è estremamente forte. Terry Hutchinson ha il talento e l’esperienza per organizzare la squadra e gestire la campagna. Direi che gli americani sono i favoriti tra gli sfidanti.

 

 

 

Quanto vale la Coppa America in termini di comunicazione e media? E’ la domanda cui bisogna saper rispondere quando si cerca sponsor per questa titanica impresa. Negli anni passati il vero valore della Coppa è stato mascherato dalle opinioni di chi voleva o non voleva partecipare. In generale chi non conosce questo sport, e non vuole assumersi i rischi che qualsiasi sponsorizzazione di un partecipante (che a differenza di una manifestazione può vincere e moltiplicare i risultati oppure perdere e non apparire quanto si desidera) vuole/vorrebbe dati certi, promesse. Si attiva così un percorso vizioso, non virtuoso, dove ci si contenta del poco ottenuto con il marketing e le pubbliche relazioni piuttosto che dell’impresa vincente che resta un territorio dove si inoltra chi è appassionato e di conseguenza ci crede fermamente. Una malattia che la vela conosce bene: una miriade di regate con contenuti tecnici modesti che diventano grandi eventi e che hanno fatto pensare al mondo che la vela è tanta mondanità e poco sport. Per questo, in generale, la Coppa America non è una avventura per manager che devono rispondere delle loro decisioni, e lo è per tycoon che talvolta sono riusciti a ottenere per le loro aziende e per se stessi risultati formidabili. Uno per tutti Thomas Lipton.

Il caso più eclatante in Italia, che poi ha pesato sul mondo della Coppa in maniera importante negli anni successivi, è quello del Moro di Venezia: l’impresa di Raul Gardini è stata totalmente disconosciuta dai manager di Montedison che hanno nascosto e addirittura alterato i dati raccolti sul “successo” mediatico del Moro. A quel tempo le rassegne stampa erano ancora cartacee, era l’era del fax e non delle mail. Le avventure della barca italiana avevano riempito giornali, televisioni, ma dopo non hanno risparmiato al Moro e alla vela anche una buona dose di autentica diffamazione. Certo, c’è stata una contaminazione del messaggio con tangenti, giudici, intrighi politici che andavano ben oltre l’evento sportivo, dove ci vogliamo fermare per guardare in “valore assoluto” e senza altra missione l’evento con l’occhio degli sponsor e dello sport.
La bella storia di Luna Rossa ha ristabilito in gran parte, e ci è voluto tempo, un rapporto più realistico tra sponsor ed evento, confermando (almeno indirettamente) che la passione del patron (come in ogni squadra che si rispetti, dal calcio alla F!) può sposarsi con successo con interessi di marketing. Come diceva Alan Bond, ritratto nella foto in bianco e nero e vincitore della Coppa America nell 83 con Australia II: “chi pensa che si possa fare la Coppa America senza risvolti economici è un pazzo”.
Per farci guidare in questo territorio incognito abbiamo interrogato Cesare Valli, che è un riferimento nel mondo della comunicazione, per Hill+Knowlton Strategies è stato Chairman e Ceo South Europe e Italy. Ha lavorato per la prima Azzurra, poi per il Moro di Venezia, ha sempre osservato la Coppa America e la vela come occasioni importanti di comunicazione. Questa intervista è stata realizzata nel 2013, prima delle regate di San Francisco quarta sfida di Luna Rossa. Il contenuto è del tutto attuale.

Quale è il valore della Coppa America per uno sponsor?
“Sono convinto sia uno dei grandi eventi, come lo sono i Mondiali di Calcio, le Olimpiadi. E’ un grande evento di risonanza mondiale buono per global players ed è un palcoscenico per gente dal conto economico importante. Gli eventi sportivi di alto livello sono sempre luoghi di incontro per i grandi businessman: si racconta che la prima volta che Berlusconi è riuscito a parlare al telefono con l’avvocato Agnelli è stato quando ha comprato il Milan e potrei citare molti altri casi. Vero o no che sia l’aneddoto il significato e’ chiaro. Per le aziende ci sono sempre ritorni economici importanti, non ho nessun dubbio, naturalmente se le cose sono fatte come si deve perché ci vuole la capacità di supportare la campagna con politiche di comunicazione adeguate”.

Lei ha partecipato alla prima sfida di Azzurra, cosa voleva dire parlare di Coppa America trenta anni fa?
“A quel tempo lavoravo per Foote Cone & Belding, e tra i nostri clienti c’era Cinzano, una delle aziende che l’avvocato Agnelli aveva chiamato attorno alla sfida in consorzio assieme a Iveco, Barilla ed altri. Ci siamo subito resi conto che tra i compiti che dovevamo affrontare c’era quello di una azione di informazione: spiegare ai giornalisti e dunque al pubblico cosa era la Coppa America. Poi abbiamo avuto anche un po’ di fortuna, perché nessuno a dire il vero si aspettava di finire in semifinale e questo ci dette un vantaggio clamoroso. A ogni vittoria potevamo percepire gli effetti positivi. Per Cinzano si trattava, tra le altre cose, di cancellare dalla memoria collettiva la parola “vermouth” con la sua immagine polverosa e cambiare il posizionamento del prodotto dopo che Martini era riuscito a collocarsi più in alto. Con la Coppa abbiamo riposizionano non solo il prodotto “vermouth” come aperitivo, ma anche tutta la linea di spumanti. E Cinzano dopo la Coppa è stata venduta bene, una analogia con Serono di Ernesto Bertarelli: l’effetto di una certa visibilità che ti porta ad avere contatti di rilievo e attrarre investitori”.

Ha poi lavorato per il Moro di Venezia.
“Il Moro ha avuto un ritorno ancor più clamoroso, io ho sempre pensato che Raul Gardini avesse un obiettivo preciso: era un grande visionario anche se spesso consigliato male e solo. Ricordo bene quando nel giardino di Ca’ Dario ci diceva “io ho i materiali”, adesso sappiamo meglio cosa è il mercato dei materiali evoluti, del carbonio, che si è largamente diffuso. Ogni volta che tornavamo da lui aveva comprato un paio di aziende. E poi aveva anche una visione dell’Italia e delle sue coste come polo turistico. Insomma, aveva un disegno industriale e commerciale preciso. I risultati in termini di comunicazione del Moro sono stati decisamente elevati, noi abbiamo quantificato una resa con un moltiplicatore di 8/10 volte l’investimento. Il Moro ha conquistato la prima pagina della Gazzetta, dove di solito si arrivava e si arriva solo con il calcio”.

Siamo alla quarta campagna di Luna Rossa, cosa ne pensa?
“Se Azzurra era il battesimo, il Moro è stata la grande sfida. Luna Rossa è la tecnica, l’attenzione al lavoro sistematico e preciso. Anche per lei accedere alle finali e alla Coppa è stato un momento di grande successo. Prada propone un prodotto particolare, che non può scendere sotto un certo livello di banalizzazione e per loro non erano molto interessanti i mercati europei quanto quelli internazionali degli Stati Uniti e del Far East. Patrizio Bertelli ha avuto una intuizione fenomenale a quotare a Hong Kong con un risultato grandioso e li può aver lavorato positivamente un certo effetto Coppa America”.

Italia, Mascalzone Latino, +39?
“Non avevano il fisico, mi spiace”

Cosa manca alla Coppa America?
“Intanto personaggi visibili e campionabili. Poi gli uomini di marketing che potrebbero sfruttare meglio le opportunità legate a questo grandioso evento conoscono poco la vela. Manca una buona Tv, perché si potrebbe fare molto meglio: il linguaggio con cui si raccontano le cose è importante. Bisogna saper spiegare gli aspetti tecnici e le regole. Ma alla gente la Coppa piace. Chissà se prima o poi avremo la Coppa da noi!”.

Di seguito un articolo realizzato per la Fondazione Raul Gardini, che sarà on line anche sul sito ufficiale. E’ on line anche sul sito del Giornale della Vela ai link

https://www.giornaledellavela.com/2018/12/01/raul-gardini-story-luomo-che-ha-reso-velisti-gli-italiani/

 

“Mi piace molto stare dentro gli elementi, nella natura. Soprattutto amo il vento e tutto quello che porta con se. Mi piace capire da dove arriva: mi serve in barca, mi serve a caccia e negli affari. Devi essere pronto a cambiare rotta quando cambia il vento”. Raul Gardini era un uomo che conosceva la natura, che aveva assimilato la magie del mare e del vento sulla costa adriatica, respirando quelle atmosfere di grande dinamica emotiva, che possono passare dalla bonaccia totale fatta di seta e nebbia all’urlo della bora o le raffiche del Garbino. “Da ragazzo per me il mare era la libertà e ho sempre avuto una spinta verso quella libertà”.

Per Raul la vela non era solo una passione quotidiana, da alimentare ogni giorno con nuovi sogni di vittorie e navigazioni, era una compagna di vita. Ha iniziato a uscire in mare come ogni ragazzo di Ravenna e dintorni per vivere ogni estate in simbiosi con la pineta, la spiaggia, i pescatori, il profumo di pesce bianco alla griglia. Le prime rande che issa sono quella dei dinghy, del Finn, la massacrante deriva olimpica che si conduce da soli.

 

La prima barca d’altura, ovvero destinata alle regate d’alto mare, di cui è armatore si chiama Naso Blu. Il nome è ispirato a quello, Bluenose, di uno degli schooner più veloci della storia, vincitore di molte regate, una delle prime barche ad essere costruita con l’obiettivo della velocità. Naso Blu di Raul è un New Optimist costruito a Bologna dai Cantieri di Crespellano appena acquisiti da Giuseppe Giuliani Ricci che poi li trasformerà in Cantieri del Pardo. Dice Giuliani: “Raul con un prestito mi consentì di rilevare il cantiere dalla liquidazione e iniziare la mia attività”.  Era un progetto di Dick Carter che derivava dal disegno vincente di Tina, vincitrice della One Ton Cup: ne ha uno simile anche Herbert von Karajan, il direttore d’orchestra velista con cui Raul resterà in amicizia per anni. E’ lungo solo 37 piedi, poco più di undici metri: una misura che per le abitudini attuali è piccola. Il primo progetto originale, cioè commissionato e costruito direttamente per lui, è quello di Orca 43, si tratta di un altro disegno di Dick Carter che diventerà presto il prototipo di una piccola serie fortunata e diffusa sulle coste adriatiche anche questa è costruita a Crespellano. Con Orca 43 Raul vince il campionato del Mediterraneo, la Middle Sea Race e le regate di Porto Cervo. La Middle Sea Race allora è un appuntamento molto importante: si corre in Mediterraneo ma è lunga quanto la Fastnet Race, regata unica e famosa dei mari inglesi. Chi conclude una regata lunga almeno 600 miglia ha diritto ad iscriversi al Rorc, Royal Ocean Racing Club, un club storico per il mondo delle regate a gran distanza dalla costa.

In questi anni Raul Gardini incontra Angelo Vianello, l’uomo che diventerà per lui molto più di un comandante delle sue barche: è veneto, marinaio, buon bevitore. Angelo in mare e a terra diventa un autentico Angelo Custode: sempre vigile e presente, ascolta vede e provvede. In quegli anni di mare vissuto insieme nasce insomma una solida amicizia che non verrà mai interrotta. Storica una battuta che Raul somministrerà ai giornalisti molti anni dopo durante la Coppa America a bordo dello splendido fisherman Todd. Il nome è quello di un altro inseparabile di Gardini: un Labrador retriever, compagno anche di caccia. Raul risponde alla domanda del giornalista Carlo Marincovich di Repubblica: perché non partecipa alle grandi regate d’altura, le traversate atlantiche? “Senta… senza pensare agli odori che si formano sottocoperta dopo poche ore, io e Angelo consumiamo circa un litro di bianco a miglio, dovremmo riempire la sentina con un peso pazzesco. Ne ha idea?”.

Dopo Naso Blu e Orca 43 per entrare nel mondo con decisione nel mondo delle grandi regate, il suo obiettivo è l’Admiral’s Cup, ci vuole di più: un prima classe che tradotto in metri è poco più di quindici. Raul Gardini chiede al fidato Dick Carter un nuovo progetto, che viene costruito a Rimini dai cantieri Carlini in legno lamellare. Il sistema di costruzione è preso a prestito dall’aeronautica e consente costruzioni leggere ma resistenti. Siamo nel 73, la barca si chiama Naif, le sue foto fanno il giro del mondo perché, per i tempi, è fortemente innovativa con le sue due ruote del timone e le sue proporzioni. E’ una barca disegnata per le condizioni dure dell’Admiral’s Cup dove partecipa e fa parte della squadra italiana con Sagittarius di Giorgio Carriero, disegnato dal giovanissimo German Frers che si rivelerà il migliore, e Mabelle di Serena Zaffagni, un altro progetto di Carter. Lo skipper è Cino Ricci, il progettista californiano è anche il timoniere di Naif, questa è una delle prime volte in cui l’Italia partecipa con una squadra ufficiale alla grande regata inglese, un tempo il grande appuntamento internazionale cui non si poteva mancare. La classifica a squadre è vinta dalla squadra tedesca, gli italiani solo noni.

Raul realizza che il mondo delle regate in tempo compensato (la classifica viene compilata utilizzando un moltiplicatore che cerca di mettere sullo stesso piano barche diverse tra loro) non gli piace molto: vuole arrivare primo sulla linea del traguardo, correre più rapido degli altri. Per farlo bisogna navigare su un maxi. Serafino Ferruzzi gli da il via libera per la costruzione di una nuova grande barca. Raul e Arturo Ferruzzi volano a New York dove il giovane German Frers, che aveva lavorato nello studio Sparkman & Stephens ed è l’astro nascente, li convince…. Così sul suo tavolo da disegno prende forma una delle più belle barche a vela da regata del 900: si chiamerà Il Moro di Venezia, sarà costruito da Carlini come Naif, sarà di legno.

In quei mesi Raul e Tilli Antonelli, uno dei ragazzi che sgobbano su Naif e che fonderà i Cantieri Navali dell’Adriatico da cui nascono i Pershing, volano con una certa eccitazione a Cowes per vedere i primi disegni del Moro. A Cowes Raul conosce anche un altro grande compagno di vela: Gabriele Rafanelli, vive lì e gestisce il miglior negozio di articoli nautici, sulla via principale dello storico villaggio capitale della vela, qualche centinaio di metri prima dell’inaccessibile tempio della vela, il Royal Yacht Squadron.

In quel tempo il serbatoio di marinai per le barche di Gardini è il Circolo Velico Ravennate, che per tutta la vita resta un rifugio casalingo per Raul e Angelo, sempre in cerca di atmosfere dell’Adriatico Selvaggio per caricare le batterie: il caffè dell’alba, l’uscita in barca con Moretto, un quinta classe Ior arrivato insieme al Moro come utilitaria per partecipare ai campionati invernali o la folk boat Idacarissima su cui escono soli per meditare e decidere. Gardini fa costruire in legno anche Rumegal, un progetto di Frers di 17 metri che vince nel 79 la Middle Sea Race ma che non lo appassiona quanto il Moro e che vende quasi subito.

Quando il Moro di Venezia arriva per la prima volta al Real Club Nautico di Palma di Majorca, abitualmente frequentato dalla famiglia reale, è la barca da guardare. La novità. Una mattina presto un signore alto ed elegante si infila a bordo senza troppi preamboli… Per lui non ci sono mai segreti, ovunque vada in Spagna è sempre casa sua. Sotto coperta il panorama non proprio è ordinato: l’equipaggio tornato dai bagordi della notte spagnola dorme seminudo, si respira atmosfera di goliardia, insomma non esattamente profumo Chanel. Angelo Vianello, che in quel caso è autentico domatore di leoni, prima impreca con i ragazzi poi si accorge di chi è il visitatore e cambia tono: la sua uscita in pozzetto è memorabile“sior Re ghe faxo un cafetin”. Juan Carlos di Borbone, che sa l’italiano e anche il veneto ride e la battuta di Angelo resterà uno degli aneddoti più raccontati della storia della vela.

Ci sono anche momenti difficili nella vita del Moro di Venezia, come la partecipazione alla tragica Fastnet Race del 1979 e Angelo ha un ruolo fondamentale nel riportare a casa il Moro in burrasca: quando si scatena il finimondo le barche grandi hanno già superato lo scoglio che da il nome alla regata e corrono già con il vento in poppa, affrontano insomma un mare meno pericoloso di quello che devono sopportare gli scafi più piccoli. Angelo resta molte ore legato al timone, è praticamente l’unico dell’equipaggio a conservare forza fisica. Il leggendario Peter Blake, che poi sarà un avversario in Coppa America, corre più che può e porta il suo Condor of Bermuda, barca da giro del mondo e tempi rudi, a battere il record e vincere in tempo reale.

Negli anni 80 Raul Gardini sperimenta le barche di un altro grande progettista californiano, Doug Peterson cui fa progettare il Moro Blu, barca con cui non entrerà mai in grande sintonia, e compra anche lo one tonner Svuzzlebubble che tiene a Marina di Ravenna per partecipare alle regate locali e rinomina Cochè.

 

Il mondo dei maxi è un mondo carico ei relazioni, intenso sotto tutti i punti di vista, dove attraverso la vela si costruiscono amicizie importanti. E’ anche per questo che Raul condivide il progetto di un nuovo Moro di Venezia con il barone Edmond de Rotshild. Il disegno è ancora di German Frers, con piccole differenze nascono Gitana (che ha il bordo libero più alto) e il Moro di Venezia II, sono costruiti di lega leggera. La barca è stupenda, ma non basta… a vincere. La scelta di realizzare un maxi leggermente più piccolo degli altri non si rivela vincente nei campionati mondiali. Raul Gardini invece vuole vincere e mette in cantiere un nuovo progetto: di nuovo German Frers, ancora costruzione di lega leggera. Il Moro di Venezia III conquista, finalmente, il mondiale maxi a San Francisco nel 1989. Il timoniere è Paul Pierre Cayard, giovane e bello, americano della California e allievo dei grandi americani, soprattutto il leggendario Tom Blackaller. La vittoria di quel mondiale è anche l’inizio di una nuova avventura: “ci siamo trovati al bar per festeggiare – racconterà Gardini – io Paul Cayard, German Frers e Angelo Vianello. Abbiamo deciso che a quel punto si poteva tentare la sfida alla Coppa America, c’era la squadra vincente”.

La grande regata, il massimo trofeo velico era in quegli anni alla fine di un ciclo, era infatti finita l’era dei 12 metri Stazza Internazionale e dopo la sfida che aveva visto in campo il grande monoscafo New Zealand contro il catamarano Stras & Stripes, poi vincitore, i potenziali partecipanti erano alla ricerca di una nuova formula di stazza che consentisse di creare barche più tecnologiche, che sarà la International America’s Cup Class. Per la costruzione degli scafi dall’alluminio di passa al carbonio e Raul Gardini ci vede una sfida nella sfida, qualcosa che è utile a cambiare l’immagine della chimica in cui si sta muovendo l’ attività del gruppo che gestisce, ma anche indirizzata al futuro. Non più chimica pesante ma innovazione tecnologica, dunque era una sfida propedeutica allo sviluppo di nuovi materiali e tecniche di costruzione che vede importanti per il futuro industriale. Gardini vede giusto ma forse con troppo anticipo: aerei, auto, arredamenti avranno presto pezzi di carbonio. La sfida è lanciata in grande stile e Raul Gardini per sconcertare gli avversari vuole alzare la posta, rendere il gioco difficile. Dichiara: “questa sfida nasce dalla conoscenza che ho per la vela e per il mare che mi ha portato ad affrontarla sia dal lato sportivo che da quello tecnologico. Con il Moro infatti vogliamo realizzare un progetto pilota nell’area dei materiali avanzati”.

German Frers e il suo studio sono al lavoro per svelare i segreti della nuova regola di stazza, decidono per costruire due barche molto diverse all’inizio e poi mettere a punto i parametri migliori per il progetto.

La costruzione delle barche avviene a Porto Marghera, dove viene allestito il modernissimo cantiere Tencara, con tutto il meglio possibile. Il varo della prima di cinque barche che serviranno al sindacato è a Venezia, non è un semplice varo tecnico ma è una grande festa che coinvolge tutta la città, la regia è di Franco Zeffirelli ci sono i grandi industriali italiani ma nessun politico.

Il Moro di Venezia, rosso e con il leone d’oro si allena prima a Venezia poi a Palma di Majorca. Cayard vuole tenere in attività l’equipaggio e partecipa vincendo al mondiale 50 piedi con Abracadabra poi alla Fastnet Race con Passage to Venice, un grande maxi.

La sede delle regate della Coppa America è San Diego in California. Il team allestisce la sua base a Shelter Island non lontano da Point Loma. Paul Cayard e il suo equipaggio si dimostrano la barca da battere in ogni occasione possibile, la loro preparazione e velocità non hanno confronti con gli avversari. Nel 1991 vincono il mondiale di classe senza difficoltà, gli avversari osservano. Per partecipare al mondiale con due barche hanno deciso di mostrare il terzo scafo, appena arrivato dall’Italia, perché purtroppo in allenamento si era rotto un albero della seconda barca. I battuti capiscono che i suoi parametri sono i migliori della flotta e chi può sviluppare nuovi progetti lo prende come base di partenza. In una pausa tra gli allenamenti e le regate Raul e Angelo sono sul tender Todd a Guerriero Negro, una laguna del Messico dove le balene grigie partoriscono e si accoppiano: è un posto magico, dove pescano e pensano alle regate che verranno. E’ il grande momento: la vela e il progetto di una chimica high tech tutta italiana sono insieme pronte alla sfida.

All’inizio della Louis Vuitton Cup, la regata di selezione degli sfidanti, si capisce che i team forti sono due: New Zealand, che si muove con l’esperienza di Peter Blake come team manager, e Il Moro di Venezia. Infatti sono loro ad arrivare alla finale sfidanti che si combatte duramente ogni giorno. I kiwi hanno una barca progettata dal neozelandese Bruce Farr con un sistema di chiglie piuttosto complesso (non c’è chiglia e timone ma due chiglie entrambe mobili) che tuttavia si dimostra rapidissima quando le condizioni del vento sono ideali. Il Moro subisce e sembra destinato a perdere la partita e la possibilità di disputare la Coppa America contro il defender americano dalle cui selezioni sta emergendo America Cubed di Bill Koch, che corre più di Stars & Stripes di Dennis Conner.

Quando la situazione sta diventando difficile Gardini decide una mossa a sorpresa: i neozelandesi stanno utilizzando una barca con bompresso e quando effettuano la manovra di strambata lo utilizzano per il punto di mura della vela di prua in maniera che la giuria della Coppa America, diversa da quella della Louis Vuitton Cup, aveva già giudicato irregolare. Il Moro ha concluso la quinta regata della finale (si corre al meglio di nove regate, bisogna arrivare a cinque punti) con la bandiera rossa di protesta, Gardini convoca una conferenza stampa dove attacca con violenza gli avversari e spiega le sue ragioni. Nella realtà il vantaggio della manovra che eseguono i kiwi si può quantificare in pochi secondi, ma l’effetto delle accuse e della successiva decisione della Giuria di penalizzare di un punto New Zealand per loro è psicologicamente devastante. I kiwi cominciano a perdere e ogni giorno il Moro diventa più sicuro e aggressivo fino a quando i neozelandesi perdono totalmente la testa e cambiano timoniere e tattico senza, ovviamente, nessun risultato positivo salvo quello di far debuttare quello che sarà l’uomo più forte della Coppa per anni: Russell Coutts. Il Moro così rimonta il suo svantaggio e vincendo la Louis Vuitton Cup diventa la prima barca italiana a disputare la Coppa America.

In campo americano le selezioni per il defender hanno portato alla ribalta Bill Koch e il suo team milionario. Ad affrontarsi saranno i due sindacati che hanno investito di più in uomini e ricerca tecnologica. Koch ha costruito cinque barche che considera rivoluzionarie disegnate da un team del MIT, ma quella scelta è la più vicina alle idee di Doug Peterson che da vero progettista nautico ha interpretato al meglio la lezione del Moro aggiungendo un ingrediente fondamentale: è più stretta. Inoltre gli americani, convinti di essere più lenti stanno rischiando molto con le appendici, timone e chiglia, e ne hanno ridotto drasticamente la loro superficie. La paura di perdere li fa rischiare, ma indovinano la mossa vincente.

Fin dal primo confronto si capisce, purtroppo, che ogni certezza e sicurezza accumulata prima delle regate è sbagliata: gli americani sono maledettamente veloci. Cayard e il Moro, dopo aver fatto scelte più conservative sicuri dei loro mezzi, si difendono come possono e vincono una delle sei regate che serviranno per definire il risultato. Il Moro resta, fino ai nostri giorni, l’unica barca italiana ad aver vinto una regata in Coppa America. Raul Gardini fa buon viso a cattiva sorte e dichiara “ce l’abbiamo messa tutta, in questa sfida c’erano tanti contenuti e sono venuti fuori quando servivano. La gente ha capito cosa volevamo fare, il Moro ha vinto nel suo sentimento”.

Il sindaco di San Diego, Maureen O’Connor è una bella signora e amministra una città di confine, che vive il desiderio dei messicani di correre verso nord a caccia di una vita senza povertà. Per l’equipaggio del Moro e tanti italiani al contrario la vita è stata correre nelle notti libere verso Tijuana e i suoi colori e sapori latini. Quel Sindaco saluta così il Moro di Venezia, creando qualche polemica in campo americano: “Voi italiani dovete essere orgogliosi di questi ragazzi che hanno rappresentato il vostro paese con stile ed eleganza e grande spirito di competizione, sono loro i veri vincenti”.

Dopo qualche mese è di nuovo Venezia ad accogliere il Moro per una festa di rientro. Il risultato è comunque stato grande, l’equipaggio acclamato, Raul Gardini felice di aver scritto un pezzo di storia della vela e del mare, alle Zattere che tra il pubblico che lo festeggia si accende l’ennesima sigaretta e detta una articolo per La Repubblica: “tornerò”.

 

Alan Bond, il primo sfidante che sia riuscito a strappare l’America’s Cup agli americani (nel 1983) diceva: “chi si illude che la Coppa non sia una questione economica è un ingenuo”. Bond, australiano qualche anno dopo la vittoria ha fatto bancarotta. Era stato in grado di comprare nel 1987 gli Iris di Van Gogh per le cifra più alta mai battuta per un quadro fino a quel tempo, 53,9 milioni di dollari. Cifra poi battuta con un quadro di Jasper Jones. E la Coppa che si è corsa a Bermuda non va tanto lontano da questa regola aurea. Le isole sono state scelte per il campo di regata per la loro conformazione, ma anche per gli investimenti del Governo locale sia nei confronti del territorio sia verso l’organizzazione gestita dal defender Oracle e da Acea (America’s Cup Event Authority) di cui era presidente Russell Coutts. Un totale di 77 milioni di dollari, di cui 15 per Acea, 22 per infrastrutture (che restano), più meno quello che spende un team per partecipare.

Misurare il beneficio per le isole che sono considerate il luogo più costoso del mondo non è facile. Una bottiglia di acqua neozelandese o anche uno dei nostri marchi costa al supermercato quasi tre dollari, una mela un dollaro e mezzo. Il tassista interrogato risponde “è andata bene, quasi tutti hanno avuto qualcosa, è arrivato qualche migliaio di persone”. Altri pareri non coincidono, qualcuno scrive di alberghi che non si sono riempiti di tifosi e pubblico ma dei soliti turisti in cerca di spiagge.  Alle Bermuda abitano 65000 persone, e lo spostamento di qualche migliaio di persone che in una grande città di mare farebbe sorridere qui diventa sensibile. Nei giorni migliori degli eventi organizzati a Napoli si è arrivati a contare 50/60 mila persone presenti sul lungo mare, e non era vera Coppa America.   ACEA ha cercato di portare a casa denaro ovunque, dai diritti Tv ai biglietti. La produzione Tv meravigliosa per un evento di barche, cui sono dedicate 120 persone come a San Francisco. Tuttavia l’operazione è riuscita parzialmente, i dati di pubblico presente fisicamente sono molto modesti: il villaggio è pieno la sera quando ci sono i concerti e i Dj set che di giorno durante le regate. In molti casi i telespettatori hanno preferito rinunciare alle dirette tv per non pagare gli abbonamenti, anche alle app per tablet. Come ha dichiarato Matteo de Nora Team Principal di ETNZ in una intervista il problema della diffusione Tv diventa cruciale per assicurare pubblico alla manifestazione.

C’è anche un retroscena difficile da verificare ma di cui si parla con una certa insistenza. Il board dei director di Oracle avrebbe pregato Larry Ellison di spendere meno per la Coppa e lui stesso si sarebbe un poco annoiato del giocattolo e avrebbe detto ai velisti “cercate di essere autosufficienti”, ovvero pagate le spese con l’organizzazione e gli sponsor. Questa posizione potrebbe ragionevolmente spiegare anche la perdita di competitività del team velico e la sconfitta che si prospetta, ma non si spiega con il patrimonio personale stimato di Ellison in 50 miliardi e la sua natura di padre padrone dell’azienda. Per Emirates Team New Zealand  è facile spendere poco: sono abituati all’economia da sempre, la loro campagna vincente del 1995 è stata una delle più misurate della storia, e da allora è difficile che il denaro esca dal portafoglio senza motivo. Il team kiwi è sostenuto da tutta la nazione, in altre edizioni il Governo è intervenuto direttamente perché ha capito, purtroppo solo dopo aver perso nel 2003, che la Coppa significa avere un driver per l’economia del paese dove l’industria nautica che vale circa 1 miliardo di euro è tra le prime del paese e il turismo aveva goduto di una accelerazione, così come gli investimenti edilizi a Auckland. Una situazione completamente diversa, per interessi e dimensioni, da quella che si vive a Bermuda.

Per il dream team americano invece non avere denaro a fiumi diventa presto soffocante. E’ anche qualcosa di insito nei caratteri delle due nazioni. Quanto hanno speso? Sono stime ma ragionevoli: 50 milioni di dollari per i neozelandesi, 90 milioni di dollari per gli americani. Cifra simile per gli svedesi di Artemis. Solo gli inglesi di Land Rover BAR, guidati da sir Ben Ainslie si possono considerare i grandi battuti della edizione 35 della Coppa hanno speso di più dichiarando un budget di 110 milioni, di cui circa 60 raccolti tra gli sponsor maggiori, una ventina dalla città di Portsmouth che ha messo a disposizione base e strutture, più le donazioni degli stakeholder tra cui numerosi lord e sir. Gli altri sindacati ovvero i francesi di Groupama, i giapponesi di Softbank Team Japan, più o meno valgono 30 milioni e sono stati sostenuti da Oracle stesso con forniture di design e materiali. Uno dei quesiti per la prossima edizione è proprio come non perdere partecipanti, come riuscire a mantenere alto il livello di attenzione. C’è chi sogna le grandi edizioni della Coppa: 87 in Australia, 92 a San Diego, 2007 a Valencia, con tante squadre interessi ed eventi. La ricetta o la responsabilità  è in mano al prossimo vincitore.

La Coppa America numero 34 è finalmente finita. Hanno vinto gli americani, ha vinto Oracle che ha fatto il miracolo di rimontare un punteggio impossibile per concludere 9 a 8, risultato inaspettato solo qualche giorno fa. Ha vinto ieri notte l’ultima combattuta regata, il distacco e la cronaca non hanno ormai nessuna importanza. Soprattutto, vale dire che sono stati più veloci di bolina sempre e comunque, che si può usare la parola incontenibili. E’ finita nel modo più crudele per Dean Barker e compagni di Emirates Team New Zealand, che hanno sentito a lungo odor di vittoria, anzi era praticamente in tasca. Larry Ellison, il miliardario terzo uomo più ricco del mondo (fa sempre una certa impressione pensarlo) gongola sul podio, alza l’antico trofeo al cielo,  pensa di aver speso bene i suoi 200 milioni di dollari. Ancora una volta ha dimostrato che i soldi contano, perché sono stati il carburante per i grandi talenti che ha messo assieme. La vittoria kiwi sarebbe stata più romantica, forse più giusta anche per come va il mondo. Ma la Coppa non fa sconti.
Quel che è successo sul campo di San Francisco ha qualcosa di magico, di mai visto prima in 162 anni di storia della Coppa che da oggi abbandona l’era antica. La capacità di Oracle di rinnovare il suo team, le prestazioni della barca sono state una dimostrazione di abilità, offuscato da qualche ombra per l’amaro lasciato in bocca dalle modifiche non legali agli AC 45 per cui sono stati sanzionati. Al momento non è il caso di perdersi nella dietrologia sulla legalità della barca, la loro velocità di bolina era qualcosa di veramente spettacolare. Così come purtroppo lo è stato il declino inarrestabile di New Zealand, che giorno per giorno ha subito la pressione di un equipaggio che ha sventolato la bandiera di Ben Ainslie usandolo come vela da tempesta, pilastro di tattica e furbizia. James Spithill è un pugile , un timoniere alla seconda vittoria della Coppa, ma Ben in qualche modo è l’eroe di questa impresa, perché salito a bordo in un ruolo non suo e subito ha saputo imporre un ritmo diverso alla barca e agli uomini. Ben che poteva anche essere nel campo avverso: nel 2005 era entrato come tattico titolare in New Zealand, ma preferì diventare il timoniere di barca due “perché devo imparare a timonare e il match race”. Ben che non era a bordo nel primo equipaggio, che ha sostituito il frigido John Kostecki, campione vero ma mai assoluto quanto lui. Due cognomi italiani a bordo di Oracle: Shannon Falcone, padre italiano passaporto di Antigua e Gillo Nobili, passaporto italiano e felicità alle stelle. La sconfitta di New Zealand è anche troppo punitiva e crudele: per una settimana hanno avuto in mano la Coppa, hanno sognato e preparato il futuro dell’evento, hanno interpretato il loro ruolo di nazionale della vela. I grandi sconfitti sono Grant Dalton e Dean Barker, che hanno cercato di seguire un altra coppia famosa sul viale del successo: Peter Blake e Russell Coutts, i trionfatori del 95. Ma contro di loro c’era un’America debole, divisa, senza il portafoglio aperto di Ellison. Per loro la sconfitta è molto difficile da digerire. Dean ha pianto come un bambino dopo il traguardo, Dalton non lo dice, ma piange dentro. Torneranno? Tornerà lo squadrone kiwi? Chissa. La corazzata invisibile Matteo De Nora ha riaffermato tutta la sue ammirazione e fiducia negli uomini. Ma non basta. Errori nel campo neozelandese? Chissà forse un giorno sapremo. Uno su tutti: quello di aver reso pubblica la scoperta del foiling (il modo di navigare sollevandosi sull’acqua) troppo presto, per Oracle è stato un inseguimento continuo ma vincente grazie alle risorse senza limiti. “Abbiamo combattuto ogni giorno – ha detto Spithill – e abbiamo vinto”. Facile, a parole.
Dean è sconsolato: “abbiamo vinto l’ultima partenza ci abbiamo sperato, ma non è stato possibile competere con la velocità di Oracle. Il loro miglioramento è stato incredibile. Siamo orgogliosi del nostro team, abbiamo cercato di riportare la Coppa in Nuova Zelanda, non ci siamo riusciti”. Per quante notti rivedrà il cronometro correre in quella regata interrotta a pochi minuti dall’arrivo, la regata della vittoria. Grant Dalton commenta: “la nazione è devastata”, giorni di scuole chiuse, record di audience, i primi effetti si sentono in Borsa, con il crollo delle azioni di Air New Zealand.   Differenze tecniche, si ci sono: ala diversa, Oracle ha la parte anteriore rigida mentre quella di Emirates Team New Zealand può twistare. Oracle ha scafi più piccoli, meno voluminosi. Oracle non ha la struttura con i tiranti che consente a Emirates una maggiore rigidità, ma in compenso le traverse tradizionali oppongono meno resistenza al vento e questa, assieme al controllo con controllo elettronico delle derive (manuale per i kiwi)  può essere stata la vera differenza, che consentiva una grande stabilità a Oracle in ogni situazione.
Il futuro è incerto: chi è il Challenger of Record? Ellison ha dichiarato che esiste ma lo comunicherà più avanti. La scelta, potrebbe essere tra il Royal Cornwall Yacht Club per un sindacato condotto da Ben Ainslie con sponsor JP Morgan oppure il Royal Swedish Yacht Club per Artemis di Torbjörn Törnqvist che ha già messo a contratto Iain Percy. Bertelli aveva le carte pronte per la sfida del Circolo Vela Sicilia al Royal New Zealand Yacht Squadron, ha sempre detto che non gli interessava farlo con gli americani. Però.. ci ha abituato alle sorprese. Quasi certamente resterà questa formula di regata, con dei catamarani foiling, lunghi 60 piedi.

Che giornata, che Coppa America. I sacerdoti della tradizione, gli aggrappati al vecchio sono rimasti li con il naso sul vetro e la gocciolina di umido che cala: anche con questi ragni da cento all’ora che si sfiorano, che stanno imparando una nuova danza, una nuova match race fanno spettacolo. A ogni epoca il suo, e sembra proprio che questo sia il nuovo che avanza. Sul piano numerico la giornata finisce uno pari, una vittoria per Emirates Team New Zealand e una per Oracle, distacchi piccoli, battaglia tanta. Dopo quattro regate i punti sono tre per Emirates Team New Zealand e meno uno per Oracle. Regata tre la più avvincente: James Spithill ha deciso per l’assalto all’arma bianca e Dean Barker, che invece vuole restare lontano dai guai per scatenare i cavalli sul percorso deve subire e accettare una penalità. Però la penalità (queste barche non devono compiere un giro su se stesse come i monoscafi, ma vengono rallentate dagli arbitri per un periodo che ritengono sufficiente) non basta a dare via libera alla barca americana. Inseguita, braccata dai diavoli neri viene superata lungo la bolina con manovre magistrali dei neozelandesi che sanno sfruttare ogni metro e ogni virata. Quando sono finalmente liberi i kiwi allungano un poco il passo e vanno a vincere con 28 secondi di vantaggio. Regata quattro parte con le stesse intenzioni: Barker non vuole problemi, soprattutto dopo la penalità. Spithill vede una buona occasione nel lanciarsi all’interno con un tempo perfetto e una velocità migliore. Passa in testa la prima boa e questa volta ci resta. Emirates è sempre li, con il fiato sul collo, ma non ci sono corsie di sorpasso da sfruttare e la miracolosa bolina della regata precedente non riesce: costretto dalla situazione al bordeggio dalla parte sbagliata del campo prova più mosse, compreso un tentativo di fare foiling anche di bolina ma insegue sempre. Anche nell’ultima poppa dove si avvicina tanto ma non sorpassa: al traguardo Oracle ha solo otto secondi di vantaggio. Quasi nulla. Per gli americani una vittoria significativa, che dimostra che la loro barca non è poi tanto inferiore a quella kiwi e che ogni giorno stano imparando qualcosa. Del resto si tratta di un equipaggio di campioni, è anche difficile pensare che non sappiano reagire. La cosa più eloquente sono i sorrisi in casa Oracle, che dicono una cosa tipo “ce la possiamo fare”. Ce la faranno? Dipende dalla loro capacità di reazione, da come sapranno usare il giorno di riposo che hanno davanti per la messa a punto della barca. D’altra parte anche i kiwi crescono e martedì per regata cinque e sei potrebbero avere delle derive nuove. Il gioco è del tutto aperto. James Spithill, eroe del giorno dice: “le velocità sono simili, dobbiamo migliorare in virata. Queste barche sono veramente faticose per tutto l’equipaggio meno che per me al timone. L’equipaggio è sempre sotto pressione, non sono mai stato su una barca così”. Per chi ama i dati numerici in regata quattro Oracle per la prima volta è stata più rapida di ETNZ con 45,97 nodi mentre i kiwi hanno segnato 44,98.